Carta, pietra bronzo: tracce di memoria a un secolo dalla Grande Guerra
Piccole note in margine a una mostra
La mostra (prorogata fino alla fine di giugno) dedicata al Collegio Borromeo trasformato in ospedale militare durante la Prima Guerra Mondiale, alla memoria dei suoi alunni che in quella guerra hanno combattuto e specialmente a coloro che non ne hanno più fatto ritorno, ha portato con sé interessanti corollari di notizie documentarie, informazioni, spunti di riflessione, suggerimenti giunti da varie parti, a testimonianza del vivo interesse per qualcosa che non è semplicemente “passato”, ma che, grazie agli oggetti, ai corpi, alle pagine, alle grafie e alle fotografie che ce ne parlano, è il presente su cui camminiamo.
CARTA
Sta nel palmo di una mano, è più piccolo di uno smartphone; è sottile, probabilmente ne sono stati strappati alcuni fogli; la copertina, un po’ usurata, scura, è flessibile e deve essersi adattata col tempo, per mesi e anni, a stare nella tasca del soldato Giovanni De Ros, ad accompagnarlo nel suo trasferimento da Pavia – dove era stato inviato a farsi curare per un’infezione all’orecchio – nuovamente sui campi di battaglia e poi in quello di prigionia di Milovice, dove resta fino alla fine della guerra¹. È un comunissimo taccuino a quadretti… di 100 anni fa, dalle pagine ingiallite e fragili, su cui con grafia ordinata e inclinata, a inchiostro, il giovane friulano descrive l’impatto con l’arruolamento (a Sacile, 1 giugno 1915), l’addestramento (a Conegliano) e soprattutto le prime esperienze del fronte (Cormons e «il famoso Podgora») dal 1 settembre: «Non si può immaginare ciò che provai al partire dal mio paese!»; «[…] una folla di gente ci accompagnò fino alla stazione […] Il treno fra breve arrivò e noi come vitelli che vanno al macello siamo saliti su queste vetture.»; «Tra di me dicevo ecco l’ora della mia opera». Poi, a matita, forse l’ultima annotazione:
20 – 5 – 1916 Tutto Asiago in fiamme e l’incendio fu causato da una granata, non vidi mai un disastro simile, ora mi ritrovo in mezzo un bosco come i condannati, ogni giorno aeroplani austriaci e granate.
Una testimonianza toccante, il racconto di qualcosa che pesa ancora fresco nel ricordo e che inizia a tradursi in parole proprio a Pavia, nel Collegio Ospedale, al quale è dedicata la prima pagina del taccuino.
È verosimile che tanti soldati abbiano potuto iniziare a scrivere della loro esperienza in luoghi come questo, avendo a disposizione una forse surreale tranquillità, tempo in abbondanza e anche gli strumenti adatti: carta, penna, calamaio. D’altronde, nei dettagliati elenchi apparsi sui giornali dell’epoca di donazioni più o meno minute, fatte dai cittadini pavesi in quei mesi di mobilitazione generale per l’allestimento dei vari reparti ospedalieri militari, compaiono ogni genere di cose: non solo letti, materassi, indumenti e generi di conforto (bottiglie di vino e marsala), ma anche carta e cartoline, per poter scrivere a casa, per poter raccontare lo spavento e la paura.
PIETRA
Come sanno coloro che hanno ripercorso tra Veneto, Trentino e Friuli i passi compiuti dai soldati – nei territori da conquistare palmo a palmo, da difendere a tutti i costi, nelle zone occupate dalle truppe – rocce di grotte e anfratti, pareti di pietra e intonaci di casolari diventavano pagine da incidere e scolpire, su cui disegnare e scrivere, con scalpelli, coltellini, piccole punte, matite, per lasciare un segno di sé. Non è improbabile che questo possa essere avvenuto anche in Collegio.
Sebbene la cosa possa far rabbrividire, il cinquecentesco palazzo è ricchissimo di incisioni e graffiti, anche molto antichi, che consegnano alla pietra di balaustre, gradini e davanzali di finestre e alla superficie di muri in cima alle scale più alte nomi (la maggior parte dei quali ormai illeggibili) e forse soprannomi di collegiali, in alcuni casi accompagnati da date (sei-, sette-, ottocentesche) e più spesso dalla lettera “W” (viva).
Nell’edificio occupato per ben cinque anni dall’autorità militare e trasformato (secondo varie testimonianze) in una caserma indisciplinata (si legga per un sapido quadro della situazione la lettera del rettore Maiocchi al colonnello Cantella del 28 agosto 1916) o comunque in un convalescenziario per soldati malati, più che feriti, si può immaginare che ci fossero tempo e occasione per aggiungere altri graffiti o per compiere imprese più impegnative, come quella di intagliare artisticamente la pietra. Potrebbe, forse, essere questo il caso del bel bassorilievo sul lato sud del loggiato, raffigurante il Ponte Coperto di Pavia. Mera ipotesi, dato che non vi sono altri elementi che possano fornire indicazioni sull’epoca di esecuzione del rilievo, che è non solo un esempio di spiccata e paziente abilità scultorea, ma anche un documento iconico importante, poiché ritrae il ponte prima dei bombardamenti che lo colpirono nel settembre del 1944.
I poderosi restauri cui fu sottoposto il palazzo del Collegio dal gennaio del 1920 (all’indomani della sospirata partenza dei militari) certamente cancellarono insieme ai segni della generale “devastazione” subita anche le eventuali tracce grafiche lasciate da qualcuno tra le centinaia di soldati convalescenti, lontani dai loro affetti, catapultati dalla fornace della guerra in un palazzo da sogno. Chissà, forse non tutte.
INFERMIERE
Camillo Golgi, il grande premio Nobel per la medicina, fu incaricato di assumere la direzione sanitaria del “Reparto Borromeo” e qui impiantò con i suoi collaboratori (Verga e Sala) un centro di ricerca neuropatologico, che produsse significativi contributi sulla cura dei nervi periferici, esposti in pubblicazioni scientifiche in particolare nel 1916.
Se a Golgi si deve l’organizzazione sanitaria dell’ospedale, la moglie Lina non fu da meno. Animò con tenacia il comitato femminile che organizzava visite e attività per i soldati ricoverati e – come gentilmente segnalato da una visitatrice della mostra – si adoperò subito per formare il personale femminile del neonato “Ospedale Borromeo”: un manipolo di infermiere volontarie (ritratte in alcune fotografie dell’epoca) che, insieme alle suore già presenti in Collegio, prestarono per anni con dedizione assistenza ai ricoverati e supporto al lavoro dei medici. Opera meritoria e di grande sacrificio non sempre, però, riconosciuta dai diretti interessati, come attestano le amare denunce del rettore Maiocchi sul comportamento irrispettoso di vari medici e degenti (si vedano per esempio le lettere del 20 agosto 1916 e del 25 marzo 1917).
ALTRA CARTA
Come emerge dai documenti del Collegio, la macchina sanitaria militare nazionale si mise in moto con grande tempestività e perfetta organizzazione: il 29 maggio 1915, a soli 5 giorni dall’entrata dell’Italia in guerra, viene steso e firmato il verbale di consegna del Collegio, ma già nel mese di aprile erano stati effettuati i sopralluoghi negli edifici individuati come adatti all’allestimento dei vari reparti dell’Ospedale di Riserva di Pavia (compreso il Borromeo).
Ospedali simili nacquero in tante altre città del nord-Italia, nella previsione (funesta e pragmatica) di dover provvedere a grandi masse di soldati feriti e ammalati, ma, in certi casi, questi ricoveri poterono diventare anche il “rifugio dorato” di alcuni medici “imboscati”. Un lungo testo non datato (ma presumibilmente del 1915) e di «autore ignoto», mette in rima in modo impietoso, burlesco e (per noi lettori) amarissimo uno di questi ospedali sito in terra piemontese². Ne trascriviamo la pagina iniziale (tralasciamo il resto, che ritrae beffardamente e nomina i vari protagonisti…):
Genesi di un Ospedale Militare di Riserva e Fedele cronistoria di quanto vi succede durante una giornata
Fra le tante invenzioni comparse sulla terra
In mezzo alla terribile bufera della guerra,
Insieme con le maschere per i gas asfissianti,
Ai quattrocentoventi, ai liquidi infiammanti,
Spuntati come funghi dal cervel di Minerva
Sorsero gli Ospedali Militar di Riserva.
E con essi risolta fu tosto la questione
Di mantenere a casa, nella natia regione,
I tanti che, perplessi fra il partire o il restare,
Si strinsero alla «croce», come a splendente altare.
Ma rimettendo ai posteri l’incarico pietoso
Di giudicare in merito, ritengo doveroso
Cantare in disadorni e rozzi martelliani
I seguaci d’Ippocrate, novizi e veterani
Che bisturi e ricette mobilitando in una
Hanno acciuffato impavidi la cieca dea Fortuna,
Che pur nella pacifica quiete casalinga
Largiva, generosa, gli eroi della siringa
Dal saluto alla porta dell’umile piantone
Al riverente inchino e all’alta ammirazione
Di scribi e reverendi con sciabola o tricorno,
(Che poveretti, sudano nell’ozio tutto il giorno),
Alla fiorita prosa di cento circolari
E farne degli anfibi borghesi-militari.
Il testo prosegue con una fedele cronaca della giornata-tipo, fatta di ozio, insulsaggini e superficialità. Testimonianza di indifferenza, disumanità, anestesia di fronte al dolore e alla disperazione di migliaia di coetanei e delle loro famiglie. Però, pur essendo, nelle intenzioni, una sorta di salace e sprezzante auto-presa in giro, il gioco finisce per rendere ancora più stridente il contrasto con la realtà impietosa e feroce della guerra e ne fa emergere, proprio attraverso la maschera deformante del riso (anzi, della derisione), tutta l’insensatezza, la crudeltà e la profonda miseria.
BRONZO
Anche in Collegio doveva essere esposta la lapide bronzea riportante il Bollettino della Vittoria. Ne abbiamo una conferma in una minuta di lettera indirizzata al patrono, priva di data ma conservata tra i documenti di Amministrazione dell’agosto 1922, in cui si fa riferimento alla decisione del rettore (Riboldi) di spostare la lapide bronzea «dalla sala del bigliardo» – l’antico “scaldatoio”, attuale Sala dei Camini, situata a pian terreno, comunicante con il Refettorio e per secoli l’unico ambiente riservato alla ricreazione degli alunni – «nel gran salone superiore», ossia nella più solenne cornice del Salone degli Affreschi. Non sappiamo se e quando lo spostamento fu effettuato e della lapide si è persa traccia.
RODOLFO MAIOCCHI
Il rettore degli anni del Borromeo trasformato in ospedale donò senza risparmio energie, forze fisiche e mentali e molta sofferenza, scosso profondamente da due gravi lutti: nell’ottobre del 1919 la scomparsa prematura del fidato braccio destro di una vita, il vicerettore Moiraghi (forse sfibrato dalla lunga vicenda dell’occupazione del Collegio), ma soprattutto quella, il 2 agosto 1917, del giovane nipote Giovanni Rossetti, studente del sesto anno di Medicina, arruolato nel XIV Reggimento Bersaglieri. Sarà lo stesso Maiocchi a dare al Magnifico Rettore dell’Università di Pavia dettagliata comunicazione delle circostanze della morte³, una raccolta di informazioni dovuta per l’attribuzione della Laurea honoris causa agli studenti universitari caduti durante il conflitto:
Dilacerato da una bomba austriaca in un avamposto di medicazione pel Monte Majo alle ore 9, e subito trasportato in un ospedaletto da campo a Posina, vi moriva alle ore 12 per shock traumatico per vaste e profonde ferite agli arti inferiori, contusioni gravissime al torace e all’addome e per dissanguamento.
OSSARI
Le due notizie sono piuttosto laconiche, ma nei verbali dei Consigli di Amministrazione del Collegio rispettivamente del 14 giugno 1927 e del 29 maggio 1931 risultano deliberati un contributo per il Sacrario del Monte Grappa:
Su proposta del Prof. Rossi, il Consiglio delibera di sottoscrivere con L. 100 a favore dell’Opera Nazionale per il Cimitero Monumentale del Grappa, allo scopo di acquistarvi un loculo intestato al Collegio.
e un’offerta di L. 200 «a favore dell’Ossario ai Caduti in guerra eretto nel Cimitero di Pavia».
Durante il rettorato di Leopoldo Riboldi, nel giugno 1922, era stato invece allestito e inaugurato il monumento ai caduti borromaici della Prima Guerra Mondiale. Un’elegante e al contempo luttuosa lapide in marmo nero, inserita in una cornice marmorea ricavata da un’ancona di chiesa (devo l’informazione alla prof.ssa Luisa Erba), murata nella testata orientale del portico del Giardino del Ricchini, reca una semplice iscrizione, sormontata da una raggiera e suggestivamente sospesa nel vuoto scuro della pietra: ALVMNIS VITA PRO PATRIA FVNCTIS MCMXV MCMVIII – NON NOMINA VT ADSINT NVMINA.
Scelta obbligata, date le informazioni ancora imprecise circa numero e nomi degli alunni caduti, che vengono aggiornati sul registro non solo da Riboldi, ma anche, ben più tardi, da Rinaldo Nascimbene, rettore dal 1927 al 1939.
¹ Un sentito ringraziamento ai nipoti di Giovanni De Ros, che hanno voluto lasciare in temporaneo deposito presso il Collegio durante lo svolgimento della mostra il taccuino “borromaico” e le lettere da lui scritte nel campo di prigionia austro-ungarico di Milovice.
² Ringrazio il dott. Alessandro Castello per aver condiviso questa informazione relativa all’Ospedale Militare di Biella concedendo la riproduzione delle carte in suo possesso.
³ La lettera, datata 18 settembre 1917 e conservata presso l’Archivio Storico dell’Università di Pavia, mi è stata gentilmente segnalata dal Prof. Giorgio G. Mellerio, al quale si deve anche la raccolta di informazioni sugli alunni caduti presentate in mostra.
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