Spigolature d’Archivio – Alunni, rettori, ospiti e giardini borromaici

Spigolature d’Archivio – Alunni, rettori, ospiti e giardini borromaici

I tre giardini offrivano nel loro insieme un esempio di climax storico ed emozionale, nel senso che consentivano di effettuare in poco spazio un vero e proprio viaggio dalla dimensione borghese del giardino nuovo, a quella aulica del giardino vecchio, a quella di tipo, diciamo così, antropologico delle Ortaglie. A questo viaggio a ritroso nel tempo corrispondeva un allargarsi dello spazio fisico e mentale, un avventurarsi dal noto all’ignoto, dal finito all’infinito, e quindi un piacevole intensificarsi dell’eccitazione per i rari alunni che, come me, vi si recavano quasi quotidianamente.

Usi, abusi e reclusi

Queste bellissime frasi, tratte dal suggestivo e intenso ritratto che Guido Giubbini costruisce attraverso il recupero della sua memoria di giovane alunno entrato in Collegio nel 1959¹, sintetizzano le «tre parti nettamente distinte» (ancorché tra loro comunicanti) della vasta area verde che completa e abbraccia la struttura architettonica cinquecentesca: il giardino del Seicento, racchiuso entro il muro disegnato dal Ricchino e saldato alla facciata orientale del palazzo; il giardino ottocentesco, affacciato sul fiume a sud e ricavato negli spazi della demolita chiesa di San Giovanni in Borgo; gli Orti Borromaici, ora a prato e con piantumazione recente, un tempo frazionati in appezzamenti coltivati a orto e frutteto.
Oggi questi spazi sono normalmente destinati agli alunni, ai quali offrono anche il complemento sportivo del campo da calcio e di quello da tennis-basket-pallavolo e comodi tavoli e panchine per favorirne lo studio e lo svago all’aria aperta, e sono anche accessibili agli ospiti stanziali e a gruppi di visitatori accompagnati in occasione di visite guidate (non ultime le scolaresche: vivaci, entusiaste e stupefatte dalla grandiosità aggraziata di questo parco naturalistico e architettonico assieme). Ma qual era in passato il rapporto tra la vita del/nel Collegio e questi luoghi aperti? Lo possiamo intuire attingendo, per esempio, ad alcuni documenti tra loro molto distanti, che ci parlano di momenti diversi di una stessa lunga storia.

Perché dall’uscire che li scolari fanno dopo cena sogliono per lo più nascere molti inconvenienti usandosi molte volte male di quel tempo, che si dà loro per recreatione, VS farà che per l’avenire dopo cena non vadano più fuora havendo in Collegio ogni comodità de portici, e giardini per trattenervisi opportunamente quel tempo.

È una lettera del 10 novembre 1648 del Patrono al Rettore: Giberto III Borromeo è molto chiaro nel richiedere (a Cesare Cattaneo) una particolare vigilanza sulla disciplina degli alunni, anche vietandone le uscite serali, per evitare quei disordini che potevano derivare da cattive frequentazioni, bevute, risse con altri universitari o con soldati. Meglio limitare la ricreazione di mente e corpo dall’impegno quotidiano nello studio alla deambulazione tra le appositamente ampie, luminose, serene e protettrici pareti del Collegio e del suo giardino, proprio a questo scopo previsto e progettato fin dall’inizio: complemento non solo estetico, ma anche funzionale alla struttura e alla vita dell’istituzione.
Un interessante documento, una specie di manuale di istruzioni per la conduzione del Collegio, compilato dal Rettore uscente Giulio Mascaro a vantaggio dei successori², esplicitava già nel 1629 la duplice funzione del giardino allora quasi ultimato³: spazio destinato alla ricreazione e persino attività fisica degli alunni e luogo di delizia e produzione di prelibate frutta e verdura. Le raccomandazioni sono varie e precise: dalla protezione e manutenzione del prezioso cancello in ferro battuto con gli emblemi borromaici (che ancora oggi si ammira e segna l’accesso alla terrazza sul giardino), all’evitare di far uscire gli alunni all’aperto col brutto tempo, alla stretta sorveglianza durante la ricreazione per prevenire danni dovuti all’irrequietezza studentesca, al personale incaricato della cura del verde:

alla palla non si gioca in nissun luogo se non nel portico del giardino. Quando piove non si lasciano andare in giardino per più cause; prima perché il Superiore non può in quel tempo soprintendere a tanti luoghi, di poi per non bagnar la ferrata. […] Sopra la porta del giardino vi è una ferrata di gran prezzo, quale in conseguenza ha di bisogno di gran custodia, sopra il tutto bisogna diffenderla dall’acqua […] Nel giardino si lasciano entrare li scolari in tutti li tempi di ricreatione, eccetto quando piove, quando vi è neve, et passata l’Ave Maria. Quando sono in giardino il Ministro deve stare dove sono la maggior parte, o dove v’è di maggior bisogno, et gli altri superiori di lontano sopraintendere: sono facili a guastar le magiostre [fragole], o carcioffoli, o mognaghe [albicocche]. […] Non si deve lasciar per il giardino pertiche, bastoni, ferri da tagliare, carette, o altri instrumenti dell’hortolano, perché o che scherzano, o scorrono qualche pericolo, o li rompono, et per levar ogni occasione, è meglio non lasciarveli. […] Per la verdura, piante, fiori vi è il giardiniero, che doverà fare il debito suo, è vero che tal volta se li dà qualche aggiuto, massime alla primavera per tener nette le strade.

A una situazione di ben diversa e drammatica devastazione si riferiscono invece le parole indignate di un altro Rettore, quasi tre secoli dopo. È il 28 agosto 1916, in piena Prima Guerra Mondiale; il Collegio è stato requisito dall’autorità militare e trasformato in ospedale per centinaia di soldati feriti o malati; Rodolfo Maiocchi si rivolge, ormai sull’orlo dell’esasperazione, al Colonnello Direttore responsabile dell’Ospedale Militare di Riserva di Pavia, elencandogli una serie di gravi abusi, rimasti però impuniti, condotti nei confronti del decoro, tanto in senso morale quanto in senso materiale, dell’antica e gloriosa istituzione; tra i vari punti non manca il riferimento al giardino (quello seicentesco o “degli alunni”, ma probabilmente anche quello ottocentesco o “del rettore”):

Non vi è alcun rispetto per i doveri di ospitalità. Ho dovuto chiudere con imposte di ferro alcune finestre per evitare e troncare un pubblico turpiloquio e per impedire l’uccisione continuata di animali da cortile ed eventuali danni alle persone.
Ho concesso l’uso del giardino pei feriti. Ebbene, si stroncarono alberi, si spezzarono sedili di marmo, si ruppero condutture d’acqua, ecc. e nonostante i miei replicati ricorsi la devastazione continua pienamente libera ed impunita.

Poche frasi che ci trasferiscono netta la preoccupazione per una realtà, quella dello spazio verde del Collegio, da sempre duplice: emanazione di bellezza, arte, cultura, ma anche esempio di razionale sfruttamento delle risorse naturali, incunabolo dell’autosufficienza alimentare della comunità borromaica.
Che poi anche un Rettore potesse avere un suo fazzoletto di terra da coltivare lo deduciamo da un altro documento, di un decennio precedente. È il 27 dicembre 1905, da poco è avvenuto il passaggio di consegne tra Giuseppe Chiozza e il neo-nominato Maiocchi e il Patrono scrive con tono affettuoso e grato all’ex-Rettore, che per più di trent’anni è stato alla guida dell’antico istituto di famiglia, rassicurandolo a proposito di alcune non meglio precisate voci relative al destino del suo “giardinetto”:

Carissimo Abate Chiozza,
[…] io mi riservava di poter in tempo augurare a Lei non solo una buona fin d’anno ma un buon principio ed una sequela di anni in ottima salute e in quiete d’animo, che Lo indennizzino dei disturbi e delle penose fatiche, che con tanta pazienza e con tanto lodevole merito Ella passò in Collegio quale benemerito Rettore.
In quanto Ella mi asserisce che furono fatte delle osservazioni e apprezzamenti circa algiardinetto ch’Ella godeva in uso nell’ortaglia del Collegio, io Le assicuro che a me non risulta nulla, giacché non avrei permesso tali dicerie contro di Lei. […] Circa ai frutti maturi, sono contento di sapere che questi furono poi raccolti a vantaggio del Collegio, giacché dal momento ch’Ella si ritirò dalla carica di Rettore, nessuno aveva diritto di usarne. […]
Scusi la fretta colla quale è scritta questa mia e voglia tenermi sempre per suo affezionatissimo
Emilio Borromeo

¹ G. Giubbini, Pavia: il giardino del Collegio, in Storie di giardini. Volume I: Antichità e Islam. Il giardino europeo dal Cinquecento al Settecento, Torino, AdArte, 2012, pp. 243-247.
² Cfr. M.L. Lunghi, Il Collegio Borromeo: strutture e figure di governo nei primi trent’anni del Seicento, tesi di Laurea, Relatore prof. A. Ferraresi, Università degli studi di Pavia, Corso di Laurea magistrale interdipartimentale in Storia d’Europa, A.A. 2015-2016.
³ «Adesso nel giardino del Collegio si fabrica [sic] la prospettiva per detta fontana, vi restarà di fare il resto nella nichia [sic] per l’ornamento, et i canali per andar attorno a tutto il giardino la detta acqua, perché la bellezza consiste in goderla in più luoghi; il canale, che vi è di presente, è stato fatto solo per modo di provisione per valersene per adaquare [sic] il giardino, et solo per utile, non per bellezza.»

CZLaskaris

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Spigolature d’Archivio – Alunni, rettori, ospiti e giardini borromaici

Spigolature d’Archivio – Alunni, rettori, ospiti e giardini borromaici

I tre giardini offrivano nel loro insieme un esempio di climax storico ed emozionale, nel senso che consentivano di effettuare in poco spazio un vero e proprio viaggio dalla dimensione borghese del giardino nuovo, a quella aulica del giardino vecchio, a quella di tipo, diciamo così, antropologico delle Ortaglie. A questo viaggio a ritroso nel tempo corrispondeva un allargarsi dello spazio fisico e mentale, un avventurarsi dal noto all’ignoto, dal finito all’infinito, e quindi un piacevole intensificarsi dell’eccitazione per i rari alunni che, come me, vi si recavano quasi quotidianamente.

Usi, abusi e reclusi

Queste bellissime frasi, tratte dal suggestivo e intenso ritratto che Guido Giubbini costruisce attraverso il recupero della sua memoria di giovane alunno entrato in Collegio nel 1959¹, sintetizzano le «tre parti nettamente distinte» (ancorché tra loro comunicanti) della vasta area verde che completa e abbraccia la struttura architettonica cinquecentesca: il giardino del Seicento, racchiuso entro il muro disegnato dal Ricchino e saldato alla facciata orientale del palazzo; il giardino ottocentesco, affacciato sul fiume a sud e ricavato negli spazi della demolita chiesa di San Giovanni in Borgo; gli Orti Borromaici, ora a prato e con piantumazione recente, un tempo frazionati in appezzamenti coltivati a orto e frutteto.
Oggi questi spazi sono normalmente destinati agli alunni, ai quali offrono anche il complemento sportivo del campo da calcio e di quello da tennis-basket-pallavolo e comodi tavoli e panchine per favorirne lo studio e lo svago all’aria aperta, e sono anche accessibili agli ospiti stanziali e a gruppi di visitatori accompagnati in occasione di visite guidate (non ultime le scolaresche: vivaci, entusiaste e stupefatte dalla grandiosità aggraziata di questo parco naturalistico e architettonico assieme). Ma qual era in passato il rapporto tra la vita del/nel Collegio e questi luoghi aperti? Lo possiamo intuire attingendo, per esempio, ad alcuni documenti tra loro molto distanti, che ci parlano di momenti diversi di una stessa lunga storia.

Perché dall’uscire che li scolari fanno dopo cena sogliono per lo più nascere molti inconvenienti usandosi molte volte male di quel tempo, che si dà loro per recreatione, VS farà che per l’avenire dopo cena non vadano più fuora havendo in Collegio ogni comodità de portici, e giardini per trattenervisi opportunamente quel tempo.

È una lettera del 10 novembre 1648 del Patrono al Rettore: Giberto III Borromeo è molto chiaro nel richiedere (a Cesare Cattaneo) una particolare vigilanza sulla disciplina degli alunni, anche vietandone le uscite serali, per evitare quei disordini che potevano derivare da cattive frequentazioni, bevute, risse con altri universitari o con soldati. Meglio limitare la ricreazione di mente e corpo dall’impegno quotidiano nello studio alla deambulazione tra le appositamente ampie, luminose, serene e protettrici pareti del Collegio e del suo giardino, proprio a questo scopo previsto e progettato fin dall’inizio: complemento non solo estetico, ma anche funzionale alla struttura e alla vita dell’istituzione.
Un interessante documento, una specie di manuale di istruzioni per la conduzione del Collegio, compilato dal Rettore uscente Giulio Mascaro a vantaggio dei successori², esplicitava già nel 1629 la duplice funzione del giardino allora quasi ultimato³: spazio destinato alla ricreazione e persino attività fisica degli alunni e luogo di delizia e produzione di prelibate frutta e verdura. Le raccomandazioni sono varie e precise: dalla protezione e manutenzione del prezioso cancello in ferro battuto con gli emblemi borromaici (che ancora oggi si ammira e segna l’accesso alla terrazza sul giardino), all’evitare di far uscire gli alunni all’aperto col brutto tempo, alla stretta sorveglianza durante la ricreazione per prevenire danni dovuti all’irrequietezza studentesca, al personale incaricato della cura del verde:

alla palla non si gioca in nissun luogo se non nel portico del giardino. Quando piove non si lasciano andare in giardino per più cause; prima perché il Superiore non può in quel tempo soprintendere a tanti luoghi, di poi per non bagnar la ferrata. […] Sopra la porta del giardino vi è una ferrata di gran prezzo, quale in conseguenza ha di bisogno di gran custodia, sopra il tutto bisogna diffenderla dall’acqua […] Nel giardino si lasciano entrare li scolari in tutti li tempi di ricreatione, eccetto quando piove, quando vi è neve, et passata l’Ave Maria. Quando sono in giardino il Ministro deve stare dove sono la maggior parte, o dove v’è di maggior bisogno, et gli altri superiori di lontano sopraintendere: sono facili a guastar le magiostre [fragole], o carcioffoli, o mognaghe [albicocche]. […] Non si deve lasciar per il giardino pertiche, bastoni, ferri da tagliare, carette, o altri instrumenti dell’hortolano, perché o che scherzano, o scorrono qualche pericolo, o li rompono, et per levar ogni occasione, è meglio non lasciarveli. […] Per la verdura, piante, fiori vi è il giardiniero, che doverà fare il debito suo, è vero che tal volta se li dà qualche aggiuto, massime alla primavera per tener nette le strade.

A una situazione di ben diversa e drammatica devastazione si riferiscono invece le parole indignate di un altro Rettore, quasi tre secoli dopo. È il 28 agosto 1916, in piena Prima Guerra Mondiale; il Collegio è stato requisito dall’autorità militare e trasformato in ospedale per centinaia di soldati feriti o malati; Rodolfo Maiocchi si rivolge, ormai sull’orlo dell’esasperazione, al Colonnello Direttore responsabile dell’Ospedale Militare di Riserva di Pavia, elencandogli una serie di gravi abusi, rimasti però impuniti, condotti nei confronti del decoro, tanto in senso morale quanto in senso materiale, dell’antica e gloriosa istituzione; tra i vari punti non manca il riferimento al giardino (quello seicentesco o “degli alunni”, ma probabilmente anche quello ottocentesco o “del rettore”):

Non vi è alcun rispetto per i doveri di ospitalità. Ho dovuto chiudere con imposte di ferro alcune finestre per evitare e troncare un pubblico turpiloquio e per impedire l’uccisione continuata di animali da cortile ed eventuali danni alle persone.
Ho concesso l’uso del giardino pei feriti. Ebbene, si stroncarono alberi, si spezzarono sedili di marmo, si ruppero condutture d’acqua, ecc. e nonostante i miei replicati ricorsi la devastazione continua pienamente libera ed impunita.

Poche frasi che ci trasferiscono netta la preoccupazione per una realtà, quella dello spazio verde del Collegio, da sempre duplice: emanazione di bellezza, arte, cultura, ma anche esempio di razionale sfruttamento delle risorse naturali, incunabolo dell’autosufficienza alimentare della comunità borromaica.
Che poi anche un Rettore potesse avere un suo fazzoletto di terra da coltivare lo deduciamo da un altro documento, di un decennio precedente. È il 27 dicembre 1905, da poco è avvenuto il passaggio di consegne tra Giuseppe Chiozza e il neo-nominato Maiocchi e il Patrono scrive con tono affettuoso e grato all’ex-Rettore, che per più di trent’anni è stato alla guida dell’antico istituto di famiglia, rassicurandolo a proposito di alcune non meglio precisate voci relative al destino del suo “giardinetto”:

Carissimo Abate Chiozza,
[…] io mi riservava di poter in tempo augurare a Lei non solo una buona fin d’anno ma un buon principio ed una sequela di anni in ottima salute e in quiete d’animo, che Lo indennizzino dei disturbi e delle penose fatiche, che con tanta pazienza e con tanto lodevole merito Ella passò in Collegio quale benemerito Rettore.
In quanto Ella mi asserisce che furono fatte delle osservazioni e apprezzamenti circa algiardinetto ch’Ella godeva in uso nell’ortaglia del Collegio, io Le assicuro che a me non risulta nulla, giacché non avrei permesso tali dicerie contro di Lei. […] Circa ai frutti maturi, sono contento di sapere che questi furono poi raccolti a vantaggio del Collegio, giacché dal momento ch’Ella si ritirò dalla carica di Rettore, nessuno aveva diritto di usarne. […]
Scusi la fretta colla quale è scritta questa mia e voglia tenermi sempre per suo affezionatissimo
Emilio Borromeo

¹ G. Giubbini, Pavia: il giardino del Collegio, in Storie di giardini. Volume I: Antichità e Islam. Il giardino europeo dal Cinquecento al Settecento, Torino, AdArte, 2012, pp. 243-247.
² Cfr. M.L. Lunghi, Il Collegio Borromeo: strutture e figure di governo nei primi trent’anni del Seicento, tesi di Laurea, Relatore prof. A. Ferraresi, Università degli studi di Pavia, Corso di Laurea magistrale interdipartimentale in Storia d’Europa, A.A. 2015-2016.
³ «Adesso nel giardino del Collegio si fabrica [sic] la prospettiva per detta fontana, vi restarà di fare il resto nella nichia [sic] per l’ornamento, et i canali per andar attorno a tutto il giardino la detta acqua, perché la bellezza consiste in goderla in più luoghi; il canale, che vi è di presente, è stato fatto solo per modo di provisione per valersene per adaquare [sic] il giardino, et solo per utile, non per bellezza.»

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