Spigolature d’Archivio – Alla tavola delle feste

Spigolature d’Archivio – Alla tavola delle feste

Alla tavola delle feste
Dal primo panettone al Natale del soldato…

Perdoni se oggi io e il mio Vicerettore ci siamo presi l’ardire di inviarle un panettone di Pavia. È per farle provare che anche i pavesi non stanno indietro dai milanesi, ed è anche per provarle che anche noi quantunque lontani ci ricordiamo sempre del nostro amato conte patrono

Così scriveva il 19 dicembre del 1906 il Rettore Rodolfo Maiocchi al Patrono conte Emilio, aggiornandolo con le ultime notizie dal Collegio, già chiuso, come l’Università, per le vacanze natalizie.
Che poi a Pavia si usasse regalare panettoni per Natale già da più di tre secoli lo documentano proprio le carte dell’Archivio e in particolare i registri dei Trattamenti, dove puntigliosamente, di giorno in giorno, il dispensiere annotava gli acquisti fatti per la cucina, le “bocche” sfamate a pranzo e a cena, le pietanze servite, la presenza di eventuali ospiti. Documenti preziosissimi – su queste pagine troviamo, per esempio, notizia delle presenze dei pittori che affrescavano il Salone o dei pranzi di Laurea degli Alunni –, curiosi e persino divertenti, perché leggendoli ci si trova catapultati nel bel mezzo di una tavola apparecchiata, in un giorno di “magro” o di festa, d’inverno o d’estate, tra vivande ancora attualissime o lontane dalle nostre abitudini e talvolta persino misteriose, per via dei nomi ‘glassati’ dalla patina dialettale lombarda o tracciati con grafie spesso ingarbugliate.
Sappiamo così per certo che il 23 dicembre del 1599 si fornivano al panettiere gli ingredienti necessari (burro, spezie, uva passa) per preparare i “pani grossi” da regalare agli “scolari” di allora. Ma la serie dei menu da sfogliare è lunga, attraversa i secoli della storia borromaica, che possono così essere guardati anche dalla prospettiva, gradevole, del commensale.

Si può provare, allora, a pescare in questa micro-storia intrisa di profumi di cucina e abbagliante di tovaglie candide, posate d’argento e stoviglie con il motto “Humilitas” stampigliato in azzurro, saltando di secolo in secolo da un dicembre all’altro, da un Natale all’altro, magari da un anno ’17 all’altro¹.

Se torniamo al 1599, i giorni di dicembre sono un susseguirsi di arrivi di fittabili e massari, che portano i frutti della terra, di allevamenti, pollai, campi, frutteti, vigneti, dalle cascine del Collegio allargate sulla pianura e sui pendii collinosi dell’Oltrepo. Il ripetersi, nella gustosa successione di piatti sulla pagina destra del registro, di voci simili in una stessa giornata fa intuire che si tratti in realtà di pietanze servite a pranzo e a cena, ma qui registrate senza distinzioni, se non la specificazione di quelle riservate alla servitù. Le “bocche” sono quasi sempre trentasette o trentotto; il pesce di fiume – frequente il luccio (“luzzo”) – si alterna alle carni rosse (vitello, manzo) e bianche (capponi, “pollastro”); non mancano nei giorni “grassi” fegato e insaccati; furoreggiano con ogni tempo le uova, usate in mille modi – per esempio per fare un impasto di pan trito e formaggio o per il ripieno dei capponi, anche con l’aggiunta dell’”ughetta” (uva passa) – ; il pane non manca mai; qualche minestra di farro, un contorno di bietole o di insalata (indivia) e le immancabili mele o pere cotte per dopo pasto riequilibrano un regime dietetico altamente proteico.
Venerdì 3 dicembre un massaro del fittabile di S. Re porta due oche e si ferma a fare colazione, così anche il “Brentore” del Collegio, ossia l’addetto al trasporto del vino e lunedì 6 il fittabile di Comairano “ha disnato” dopo aver recato con sè “un moggio di risone per li caponi”. Il menu sciorina salame per antipasto, minestra di riso e minestra di rape, carne di manzo e di vitello, ripiena, “insalata di radice”. Indispensabili i condimenti: olio, burro e lardo (per insaporire le minestre) e, curiosamente, l’elenco include anche “l’olio per metter ne li lanternoni”, voce d’altronde fondamentale e costante della spesa giornaliera di secoli, insieme alle candele. Sabato 4 dicembre non ci sono ospiti esterni; tra gli ingredienti per cucinare compaiono cipolle, una testa d’aglio e un limone; il regime di “magro” impone verze e spinaci e vario pesce anche arrostito con olio e 6 uova “per 2ª pietanza ad Alunni che digiunano”.
Nel menu del famoso 23 dicembre tra le molte portate ci sono anche le salsicce (“luganica”), l’anitra, le castagne, come sobrio dessert, e il sanguinaccio con cipolle (destinato alla servitù).
Alla nostra esplorazione gastronomica, la cucina tra fine Cinquecento e Seicento si rivela sostanziosa e saporita, fatta di gusti forti e di intensi e densi profumi.

Se facciamo un balzo fino allo stesso periodo del 1717 i commensali risultano meno numerosi (ventitre) e sembra quasi di sentire levarsi dalle antiche pagine del registro un profumo decisamente più zuccherato: le feste, a tavola, si distinguono per la succulenta raffinatezza e varietà delle pietanze, ma soprattutto per la presenza dei dolci, vere delizie per il palato, tentazioni cui si può cedere volentieri dopo i giorni della penitenza.
Venerdì 24 dicembre è annotato a margine il dono al Confessore della “solita cassetta di vino”; in Refettorio si serve mostarda per antipasto e poi, a pranzo, anguilla fresca in casseruola con funghi, lucci, uova fritte, uva e formaggio; a cena, invece, anguilla marinata, “luzzi carpionati” (in carpione) e rane in guazzetto. Segue la cerimonia dello scambio degli auguri e della distribuzione dei doni agli Alunni, cibi rari e pregiati, accompagnati da buon vino:

Doppo la colacione li Signori Collegiali vanno a dare le bone feste al Signor Rettore et esso li fa dare un piato di sfoliate, un altro di olive, et una naveta di marzapane per caduno, vino bianco e rosso di regalo.

Il pranzo del 25 dicembre è un trionfo di vitello lesso e pollo arrosto, frutta e formaggio e ancora dolciumi, distribuiti con generosità ai commensali: “una naveta di marzapane caduno et un panetone con una mano di pane per caduno e doppo un quarto di torta sfoliata per caduno e vino bianco e rosso”. Anche per la servitù il pasto è abbondante e innaffiato da un fiasco di vino, ma declinato in chiave salata. Alla sera un po’ di pancotto, insalata e vitello freddo, per non sovraccaricare gli stomaci.

Se compiamo di nuovo un balzo lungo un secolo, alle feste natalizie del 1817, nel gusto, ma anche nella grafica, troviamo alcuni cambiamenti, segno dei mutare dei tempi. Un senso di regolarità e ordine spira intanto dalla diversa impaginazione del registro, che sembra meno l’annotazione accurata ma anche svelta di chi sta poco distante dal fuoco delle cucine e più lo scrupoloso lavoro di un calligrafo seduto a una scrivania. Nella pagina sinistra, spartita in tre colonne, sono riportate con precisione le presenze giornaliere e si possono così seguire gli spostamenti del Rettore – in visita alle cascine e poi di ritorno per pranzo o cena –, le partenze degli Alunni distinti per cognome, gli arrivi di vari ospiti: dall’”uomo di Pegazzera” che porta l’uva, al “Chirurgo” del Collegio, a qualche ex Alunno, al “cavalcante”, che l’indomani deve portare a Milano il “vino vermut”.
L’ampia pagina di destra è divisa a metà da una linea verticale, i menu vergati in scrittura chiara e minuta si susseguono giorno per giorno con ordinata e compatta brevità, distinti non solo tra pranzo e cena ma anche ‘per destinazione’: la colonna sinistra del foglio è infatti dedicata alle pietanze servite “Al Refettorio” (dunque agli Alunni), quella di destra “Alla Tavola” (dunque ai Superiori e ai loro ospiti).

La cucina ottocentesca ci appare in generale più elaborata ed equilibrata, si moltiplicano i contorni (insalate e verdure varie, tra cui i cardi) e fanno la loro comparsa due sapori di cui oggi non sapremmo fare a meno – la pasta e il caffè – e anche un piatto tipicamente legato alle coltivazioni agrarie pavesi e alla tradizione culinaria milanese, non a caso riservato al menu di Natale…
Martedì 23 dicembreAl Refettorio” a pranzo vengono imbanditi “riso puro”, manzo con peperoni, fegatelli di maiale, pere e stracchino, a cena lasagne, vitello con salsa, pere sciroppate; ma “Alla Tavola” si susseguono riso e “seleri” (sedano), “coradella”, manzo, “codeghino” (cotechino), lepre, fegatelli, insalata, frutta, formaggio, castagne; a cena verze, stufato, frutta e pere sciroppate. Le differenze in quantità e varietà tra le due colonne di menu sono evidenti, e si mantengono anche il mercoledì 24, della Vigilia, pur nel condiviso regime di “magro”: “Al Refettorio” per pranzo riso con verze, uova fritte, spinaci, “tenca” (tinca) fritta, uva e stracchino, per cena “luzzo” in bianco e insalata; “Alla Tavola” agli elementi all’unisono – riso e verze, uova fritte, “luzzo”, spinaci – si aggiungono a pranzo golose variazioni: gamberi, anguilla, “pastafrolla“, merluzzo, castagne, oltre agli immancabili insalata, frutta e formaggio; a cena “luzzo”, “semolini”, frutta, pere sciroppate.
Il 25 dicembre la colonna di sinistra riporta un Nota Bene: “A pranzo essendo rimasto un solo Alunno andò a tavola con li Signori Superiori”. Un privilegio grazie al quale avrà potuto gustare alcune prelibatezze caratteristiche della cucina lombarda: risotto giallo, frittura, manzo, cotechino, lepre, pollo (“polino”), croccante, insalata, mostarda, frutta, formaggio, panettone e caffè. Alla sera ritorna la distinzione tra le due colonne, ma questa volta parrebbe ribaltata, perché se “Al Refettorio” sono serviti zuppa, vitello, “salza di zambaglione” e quattro biscottini, “Alla Tavola” ci si accontenta di zuppa, “due piatti avanzati”, frutta e formaggio.

Tutti questi elenchi di pietanze, per essere intesi e goduti non solo come sollecitazioni per l’olfatto e il palato, ma anche come elementi di storia, società e cultura alimentare, dovrebbero essere analizzati con l’Artusi e altri manuali (anche di linguistica) sotto mano e con la competenza multidisciplinare promossa nelle moderne facoltà universitarie di scienze gastronomiche.

Resta però un ultimo tassello: e il Natale del 1917?
Non abbiamo una registrazione dei menu serviti in quell’anno, né negli altri, dal 1915 al 1919, quando il Collegio, trasformato in un superaffollato ospedale militare, era stato dotato di una seconda cucina per far fronte alle moltiplicate esigenze di vitto. In Archivio è conservato solo un foglio volante riportante la Composizione delle varie razioni per due pasti, distinte a seconda della dieta riservata ai soldati ricoverati: si andava da quella di sola minestra (“pastina, capellini, semolino”), con riso e un poco di manzo, alla “dieta speciale (alimenti straordinari)” con pollo, a quella a base di vitello, a quella più corroborante, che alla “costoletta di vitello o bistecca” univa anche la “frittura di cervello”. Le quantità delle razioni sono indicate con precisione per ogni alimento: pasta, riso, carni, ma anche, per tutti i degenti, pane, caffè, latte, zucchero, vino e “brodi ristretti triturati”.
Una dieta ‘da ospedale’ ben diversa dal rancio consumato in trincea. Un Natale lontano dal fronte, tra le cure di medici e suore, sotto lo sguardo vigile dell’Autorità Militare e del Rettore di un antico collegio, ma arrivato dopo un autunno difficile e duro, così carico di eventi per l’Italia e il mondo: la guerra, la fame, la disperazione, Caporetto, la Rivoluzione d’ottobre.

¹ Resterà tuttavia escluso da questa breve ricognizione il menu del Natale 1617, perché la grafia da ‘ingarbugliata’ si fa illeggibile.

CZLaskaris

sito tematico della Biblioteca