Spigolature d’Archivio – “Dress code” in Collegio (e fuori)

Spigolature d’Archivio – “Dress code” in Collegio (e fuori)

“Dress code” in Collegio (e fuori)
Dalla veste morella al soprabito chiaro

Un collegio non è un’entità astratta, ma una realtà, che si manifesta materialmente sia attraverso una sede, una struttura architettonica che lo connota come spazio costruito per lo studio, sia attraverso gli studenti che lo abitano e ne incarnano i valori formativi e l’essenza di comunità. Anche per questo, fin dai primissimi passi, il Borromeo ha dotato i propri alunni di una “divisa” che fosse funzionale alla vita in Collegio – dunque decorosa e uguale per tutti – e all’identificazione fuori dal Collegio.
Le Costituzioni (elaborate progressivamente dal 1584 e promulgate nella loro forma definitiva nel 1610) sono molto chiare in proposito e dedicano un intero capitolo all’abito dei collegiali, che deve avere colori, tessuti, misure, fogge ben precisi. Siamo d’altronde nel Seicento, il secolo dei codici, anche vestimentali.

Ciascun studente abbia due vesti di panno fatte nella forma e maniera come dissotto si dimostra. La loro veste esteriore sia dicolor pavonazzo, e questa semplice, la quale non si ripieghi dal capo sulle spalle, ma si leghi decentemente al collo con acconcio modo e sino ai piedi si stenda, la cui lunghezza uguaglia le maniche non larghe ma decorose dall’alto sino al basso a poco a poco ristringentisi. La veste interiore di color nero parimenti si stenda sino ai piedi. L’insegna sia una fascia d’oro e seta pavonazza decorosamente larga e longa; nella estrema di lei parte a caratteri gallici antichi si ricami la parola humilitas tessuta in tela d’oro, la qual insegna allorché usciran di Collegio portino decorosamente appesa alla spalla sinistra. Vestiti di questo abito stesso ed adorni di questa insegna vadano a pigliar il grado di Dottore; usino lo stesso mentre ritornano al Collegio e vi dimorano. Allorché partiran dal Collegio per stare assenti qualche spazio di tempo, come quando sono le vacanze dagli studj, allora depongano affatto la veste pavonazza, né la portino e se ne vestano fuori dalle mura di Pavia più lontano di un miglio. Perciò queste due vesti coll’insegna a spese del Collegio si diano e si consegnino a ciascun studente quando si accetterà nello stesso Collegio. Ma in avvenire ciascuno, finché dimorerà in Collegio, si procacci a sue spese quelle vesti fuori che l’insegna, la quale ordiniamo che sempre si somministri a spese del Collegio. Affinché queste vesti si conservino intatte, decenti e secondo la dignità del Collegio, procuri il Rettore che quanto prima si rifaccian a proprie spese da quelli che le avevano logore e consumate. Quelli che per lor colpa macchiata avranno o perduta l’insegna se ne procaccino un altra a proprie spese.

Possiamo farci un’idea verosimile di come apparissero i Borromaici di allora grazie alla figura affrescata da Cesare Nebbia nel 1603 sulla volta del Salone: un modello in cui gli Alunni guardando all’insù potevano facilmente riconoscersi.
Leggendo le istruzioni del rettore Mascaro nel 1629 scopriamo che ai Camarieri era affidata la pulizia di scarpe, vesti, “morella” degli alunni; che il Portinaro aveva fra le sue mansioni anche quella di sarto – «per ordinario deve sempre lavorare di sartore, saper fare le vesti morelle a’ Collegiali» -; che per fornire gli abiti al Chierico del Collegio «si fanno tingere in nero le vesti dismesse di rassa morella de scolari, et gli fa o veste o zimare, o calze secondo il bisogno; il medesimo per l’estate con le vesti di saglia, o grograno». Tutto è pragmaticamente organizzato, in un’ottica di oculata gestione finanziaria.
La spesa per l’acquisto delle stoffe non doveva, d’altronde, essere un capitolo di poco peso, se nel 1752 una dettagliatissima «annotazione» (forse compilata dal Rettore) completa di «conto demonstrativo» illustra i vantaggi (ossia il risparmio) di non comprare dal mercante il “panno”, per l’inverno, e la “saglia”¹, per l’estate, già «tinti in grana e poi in colore pavonazzo per le soprane dei Collegiali» (la tintura era spesso doppia, prima scarlatta poi violetta, per produrre il giusto tono di colore), ma di acquistare le pezze di stoffa ancora bianche e affidarle al tintore.

Le prescrizioni relative alla “divisa” da indossare erano orientate non solo all’immediata riconoscibilità degli alunni fuori dalle mura del Collegio, ma anche a un’azione educativa, svolta opponendo un argine o un filtro alla moda e alle sue seduzioni.
Gli studenti, una volta entrati a far parte del Collegio, non devono più indulgere alla vanità personale, ma abbandonare abitudini e vezzi legati al proprio rango sociale e alla propria vita di prima. Federico Borromeo è, come sempre, molto chiaro, specialmente nelle questioni pratiche: in una lettera del 1608 chiede al Rettore di vigilare sull’osservanza dei vari punti delle Costituzioni, compreso il «non portare cosa alcuna di seta, né anco sotto le veste talari, o di altra maniera». Un anno prima, nel gennaio 1607, il cardinal Baronio aveva chiesto maggiore severità nei confronti del nipote, che lui stesso aveva fatto entrare in Borromeo per atto di carità, ma che ostentava con arroganza una ricchezza peraltro inesistente, con atteggiamenti discutibili e persino nel modo di andare vestito: «che gli sia levata la pelliccia, non essendo consuetudine che dalli poveri si porti la pelliccia se non di pelle di agnelli, come la porto io».
Gli aggettivi e avverbi riconducibili ai termini “decoro” e “decenza” ricorrono con particolare frequenza in relazione al vestiario degli alunni e provare a incrinare un habitus improntato alla sobrietà e austerità (specchio esteriore di virtù interiori) viene considerato per secoli un affronto o, al più, un azzardo. Persino indossare gli stivali può essere considerato un eccesso, neppure giustificabile per ragioni climatiche e sanitarie:

Non credo adunque per ora [scrive il 16 dicembre del 1787 il Rettore al Decano del Collegio, latore di una richiesta collettiva]d’annuire all’istanza dell’uso di stivali, non già perché io vegga irregolare il loro desiderio, ma perché questa essendo cosa non mai usata, mi spiacerebbe ad introdurre una simile novità. Il Collegio Borromeo è stato sinora il modello non solo della saviezza, e del buon regolamento, ma eziandio d’una certa decenza, e di proprietà sino nel modo di vestire, e certamente questo fregio si toglierebbe affatto, se si principiasse a vedere tutti que giovani, che in un modo, o nell’altro andassero anche ne’ luoghi terzi con stivali; oltre di che poi non so se con quell’arnese venissero a riparar più l’umido di quello che ora soffrono, e se col continuo usarsi non sia forse peggiore del non accostumarvisi.

Pochi anni dopo, agli stivali viene concesso di comparire almeno in inverno, ma pare dichiarata guerra all’uso indiscriminato di “calzoni” e affini. In un documento non datato, ma collocabile intorno al 1813 e intitolato Nota degli effetti che i signori Alunni dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia devono seco loro portare nell’entrare nel Collegio medesimo astenendosi dalla squisitezza, e dal lusso ripugnante alla natura del Collegio stesso e de’ di lui Alunni, si legge al punto 4:

L’Uniforme dal R. Governo prescritto a tutti li scolari studenti nelle Regie Università del Regno d’Italia [perché tutti gli universitari dovevano indossare un’uniforme che li distinguesse dagli altri giovani], ed anche un abito di panno nero con sott’abito e calzette dello stesso colore, essendo solamente nell’inverno permesso un soprabito del pari decente di panno di colore per ora a piacimento, ed anche i calzoni longhi (purché in riguardo alla loro robba e forma siano conformi alla decenza e gravità degli abiti sudetti) sotto li stivalli, durante il solo inverno; ma per lo contrario restando in tutto il corso del Letterario anno proibito assolutamente non tanto il comparire, e stare in pubblico anche dentro lo stesso Collegio vestito del puro, e semplice jaquet, quanto il mettere si in casa, e per uscire di casa i così detti pantaloni, calzoni, calzette, calzononi colli coturnij, e colli stivaletti di Nanchin, o qualunque siasi stoffa ed in fine ogni altro calzonone di qualche sia simile, e diversa foggia, e comunque denominato, perché tutti sono contrarii alla costumatezza, e decenza dell’onesto giovane, ed Alunno.

L’idea non è tanto quella di bloccare istanze di modernizzazione e libertà d’espressione nei giovani collegiali, quanto di reprimerne le tendenze a volersi distinguere in modo ostentato all’interno di una comunità di uguali; si cerca di rispondere alle suggestioni del lusso e della moda, con la forza della tradizione e il richiamo all’humilitas.
Gli echi di questa “battaglia” tra opposti codici di comportamento veicolati dall’abbigliamento risuonano con timbro sorprendentemente simile anche a distanza di secoli tra loro, nei documenti secenteschi come in quelli novecenteschi:

8 dicembre 1631, scrive il Greggio: «Questo è venuto al Collegio senza presentarsi ad alcuno vestito con una veste assai lunga, ma tagliata di dietro con li spalazzi molto grandi, quali con gran difficoltà ho fatto levare, tuttavia detta veste non è per habito Collegiale, con un centurino di corame, qual non si può portare per essere habito laicale»
9 novembre 1905, scrive il Maiocchi: «Si vide, con sorpresa, appeso in portineria, con ostentato disprezzo della disposizione regolamentare a pagina 9, un soprabito chiaro, e alla preghiera […] perché fosse tolto il mal esempio, fu risposto ritirando il paletot chiaro ma appendendo in suo luogo una nera corta giacchetta da caccia. Non si parla dei pantaloni che non sono neri, né della cravatta che è bianca per l’uscita dal Collegio, e nera in qualche ora nell’interno dell’Istituto.»

Eppure la «disposizione regolamentare» viene ribadita nella versione aggiornata del 1906: i colori devono esprimere serietà, quindi c’è spazio esclusivamente per il nero (quasi un “total black” diremmo oggi) o il blu scuro, tanto negli abiti, quanto in soprabiti, cravatte e cappelli; unica concessione alla leggerezza primaverile «dopo Pasqua è tollerato il cappello di paglia bianco con nastro nero». Banditi i mantelli, le maglie colorate, il fustagno, il velluto e, naturalmente, gli «stivaloni».

¹ Dizione lombarda per saia: tessuto in lana ad armatura diagonale, normalmente usato per abiti maschili.

CZLaskaris

sito tematico della Biblioteca