Spigolature d’Archivio – Il Collegio… prima del Collegio

Spigolature d’Archivio – Il Collegio… prima del Collegio

Il Collegio… prima del Collegio
Tracce di aspiranti “protoalunni”

Tra le non molte lettere che l’archivio del Collegio Borromeo conserva del suo fondatore san Carlo, una in particolare risulta interessante per comprendere l’impatto immediato che la notizia della nascita della nuova istituzione dovette avere tra i suoi contemporanei:

Ill[ust]re S[igno]re Ho veduto quanto V.S. mi scrive in racc[omandazio]ne del Tithoni per un luogo nel Collegio Borromeo di Pavia. V.S. sa che si va tuttavia fabricando, né anchora son fatti gli statuti, o ordine alcuno, però quando il Collegio sarà in essere, la potrà ricordarmi questo suo desiderio et in me trovarà sempre prontezza di satisfarla in tutto ch’io possa, conforme all’amore et osservanza ch’io le porto. Et per fine me le offro con tutto l’animo, pregando Nostro Signor Dio per ogni sua prosperità.
Di Roma li XXIIII di Marzo 1565
Di V.S. Amorevole parente
Il Car.le Borromeo

Quando scrive questa lettera, Carlo – che nel 1560 era stato chiamato, fresco di Laurea in utroque Iure (in Diritto Civile e Canonico) alla corte papale da Pio IV (il suo zio materno, Giovanni Angelo Medici), nominato subito cardinale, coinvolto nella fase conclusiva del Concilio di Trento e in tutte le varie attività politiche e culturali del pontefice e nel maggio del 1564 nominato Arcivescovo di Milano – si trova ancora a Roma, da dove partirà nel mese di settembre per insediarsi definitivamente nella diocesi lombarda e dove tornerà successivamente solo in occasione dei conclavi.
Nei brevi ma intensi anni romani il giovane Borromeo formula precocemente un progetto ambizioso, sollecitato dall’esperienza degli anni universitari (1552-1559) trascorsi a Pavia: dare vita a un’istituzione, dotata di sede adeguata, che possa accogliere e ospitare gratuitamente una folta comunità di studenti (il loro numero si attesterà sui 40 alunni, ma Carlo ne ipotizza addirittura 100), che, pur appartenendo ai ranghi nobiliari, siano sprovvisti delle risorse finanziarie necessarie per potersi mantenere dignitosamente e stabilmente per tutta la durata del percorso accademico. La preoccupazione di Carlo è, in realtà, non solo “logistica” o strettamente caritativa e assistenziale, ma anche formativa ed educativa in senso più ampio e radicale: il Collegio, infatti, non viene concepito come un convitto comodo e ben organizzato, che fornisca un tetto, un letto e dei pasti, ma come un vero e proprio luogo di promozione culturale, che favorisca la crescita intellettuale e insieme la maturazione spirituale di chi vi è accolto. Queste premesse e obiettivi emergono nel documento che istituisce il Collegio Borromeo: la Bolla di fondazione emessa il 15 ottobre 1561 da Pio IV, che avalla il progetto del nipote e vi conferisce l’indispensabile fondamento economico, costituendo attraverso successive e progressive attribuzioni di possessioni di provenienza monastica quel vasto patrimonio di rendite e benefici fondiari, che possa garantire solidità e durata alla nascente istituzione (come ha in effetti garantito per più di quattro secoli, anche nei periodi di più aspra crisi economica e sociale). La fabbrica del Collegio prende materialmente avvio con la posa della prima pietra il 19 giugno 1564 e prosegue con ritmo irregolare (talora accelerato, talaltra rallentato) nei decenni successivi, ma la notizia dell’iniziativa si diffonde con notevole rapidità, a partire dagli ambienti più prossimi a Carlo.

La lettera del 24 marzo si inserisce in questo contesto: a neanche un anno dalla posa della prima pietra Carlo deve già rispondere alle richieste che gli arrivano per un posto nel nascente Collegio; in questo caso, quella di un membro della sua famiglia, per parte materna, in favore di un tal «Tithoni».¹ In calce alla missiva e sul retro del foglio è vergato il nome del destinatario: Filippo Serbelloni, forse fratello del più celebre Gabrio e cugino della madre di Carlo Margherita e dei celebri zii – il pontefice Pio IV e il più sinistro Gian Giacomo detto il Medeghino, abile e spietato condottiero e capitano di ventura – figli di un Medici e di una Serbelloni. Al di là di questi intrecci dinastici, è interessante osservare con quanta rapidità si muovano le “istanze” di giovani per un posto in Collegio. Evidentemente l’iniziativa del Borromeo colma un vuoto, risponde a un’esigenza acuta, offrendo a molte famiglie l’opportunità (o il miraggio) di collocare i propri figli in società in posizione vantaggiosa, permettendo loro di affermarsi come professionisti, amministratori, funzionari pubblici, giuristi, accademici, medici.
Carlo fa gentilmente notare che la richiesta è un po’ prematura: la sede non c’è ancora (il palazzo sarà completato solo nel 1586, due anni dopo la sua morte) e, altro aspetto importante, non sono ancora stati redatti «gli statuti, o ordine alcuno», ossia fissati in forma scritta quegli ordinamenti che devono regolare in ogni aspetto la vita e la struttura dell’istituzione – dalla selezione degli alunni alla loro disciplina, dalle mansioni del personale ai vari compiti gestionali e amministrativi -, e anche questi verranno formalizzati nelle Constitutiones nel 1587.

Ma la domanda del Serbelloni non è certo isolata. Le cartelle d’archivio cronologicamente precedenti non solo all’apertura ufficiale del Collegio agli alunni nel maggio del 1588 (parte da questo momento il primo protocollo alumnorum in cui sono registrati pagina per pagina, anno per anno, i nuovi entrati, con le relative informazioni anagrafiche e universitarie), ma anche all’ingresso nel 1581 di una più ridotta compagine di “protoalunni” (tra questi Federico Borromeo, il celebre cugino di Carlo: cardinale, arcivescovo di Milano e primo Patrono del Collegio) conservano una notevole quantità di lettere di presentazione di aspiranti collegiali, datate tra il 1565 e il 1573, con una concentrazione particolare nell’anno 1569, probabilmente perché si era diffusa la notizia di un’ormai prossima apertura del Collegio:

[…] (Iddio gratia) il desiato Collegio Borromeo nella cit[t]à di Pavia si ritrova in esser tale, che l’anno che viene potrà consolare molti gioveni desiderosi d’imparare […]

scrive nella primavera del 1569 il richiedente posto Giovanni Giacomo Nostrano da Margozzo e, con la medesima aspettativa di un’apertura in tempi brevi, il cardinale di Como:

Havendo inteso ch’el Collegio di scolari che V.S. Ill.ma fa in Pavia è tanto innanzi, che fra un anno et mezo sarà in essere da poter cominciar a metterci venticinque scolari, ho voluto anticipar il tempo, et supplicarla, come fo quanto posso, che si degni farmi gratia di connumerar in un di questi primi luoghi Giovanpaulo Paravicino da Como, d’età di XVI anni, nato nobile, erudito in belle lettere et bonissimi costumi, che a quel tempo haverà da cominciar i suoi studii di legge. […]

Le lettere sono per lo più organizzate in forma di memoriale da Tullio Albonese, Commissario Generale di Carlo Borromeo, che lo incarica di seguire tra gli altri affari quelli relativi alla realizzazione a Pavia del Collegio.
I testi meriterebbero di essere trascritti: sono piccoli capolavori di retorica epistolare, volti a perorare la causa di un figlio, un nipote, un protetto, mettendone in luce la spiccata attitudine allo studio, ma anche le doti di dirittura morale, buon carattere, ottime maniere. Un esempio:

Guglielmo Apposio Cittadino di Ventimiglia et Dottore di Leggi espone humilmente a V.S. Ill.ma si come è carico di dodeci figli tra quali ne ha uno che si chiama Camillo di età di anni diciotto inclinatissimo alle lettere et di già è di assai buona intelligenza ben morigerato, et attende alle cose della chiesa […] Non havendo esso Dottore il modo di mantenerlo allo studio atteso le sue poche facultà, et volendo pure cercar ogni via acciò detto suo figliolo perseveri nella buona via già incominciata ha deliberato haver ricorso da V.S. Ill.ma confidandossi nella sua clemenza et bontà infinita. Supplicandola che si degni per l’Amor de Iddio far questa carità a detto Dottore in concedergli un luogo nel colleggio che ella ha eret[t]o in Pavia per detto suo figliolo […]

Le domande provengono da luoghi molto diversi e anche molto distanti da Pavia, a riprova della variegatezza geografica e dell’”internazionalità” del corpo studentesco dell’ateneo pavese. Non solo Milano, dunque, ma anche Soncino, Ventimiglia, Bobbio, Como… e persino l’estero, come per Stefano Muggino da Lugano, o Andrea Olgiato, giovane di alto ingegno, che oltre al latino e all’italiano conosce il tedesco e il boemo e dopo un semestre nel Collegio di Praga invia (con tanto di lettera di referenze) il proprio curriculum per essere accolto a Pavia.
Le età dei giovani presentati vanno dai 15 al 19 anni circa. I mittenti sono laici ed ecclesiastici: padri con incarichi di carattere pubblico ma oppressi economicamente dal giogo di una foltissima prole o flagellati da rovesci di fortuna; vescovi, alti prelati, dignitari e aristocratici in relazione più o meno diretta con il cardinale Borromeo, ma anche sacerdoti, monaci, frati, come i Padri Somaschi residenti nel monastero pavese di San Maiolo (legato a doppio filo con il Collegio), che patrocinano la causa di due giovani intenzionati a studiare teologia. Lo stile delle suppliche è a volte più asciutto, altre più prolisso, carico di dettagli “toccanti” (come lo stato di salute precaria di chi scrive o la situazione disagiata di un giovane e povero orfano, magari figlio di un “non mediocre pittore”).
Dal 1569 le domande includono anche veri e propri attestati, firmati da maestri, rettori, lettori pubblici, che garantiscono la buona preparazione scolastica degli aspiranti allievi. È un punto, questo, su cui insisteranno le Constitutiones del Collegio: il reclutamento dei collegiali è selettivo (allora come oggi), in funzione della resa futura; chi ambisce al posto di alunno deve poter sostenere con successo il carico di studio che lo attende, dando ottima prova di sé nella disciplina scelta. Se in una primissima fase (quella che si delinea attraverso questa messe di documenti epistolari) ci si può affidare per la selezione a un’autorevole presentazione esterna, si affermerà presto il principio di un vero e proprio esame d’ingresso, in cui l’aspirante collegiale, svolgendo una prova scritta e venendo interrogato da un’apposita commissione di docenti, può dimostrare il proprio livello di istruzione.

Ma se il palazzo del Collegio in questi anni non è ancora in piedi, tutte le candidature accuratamente registrate dall’Albonese saranno rimaste lettera morta? Il loro numero, la precisione con cui sono redatte e conservate farebbero pensare al contrario. Da quanto emerge nell’epistolario di san Carlo, sappiamo che una piccola comunità di “protoborromaici” si raccoglie dal 1566 attorno al dottor Nicolò Graziano – giurista friulano, docente a Padova, a Macerata e infine nello studium pavese dal 1566 fino alla morte nel 1588 -, che redige e invia per l’approvazione a Carlo le norme comportamentali, etiche, educative, che dovevano regolare la vita degli studenti a lui affidati (Modo di vivere in casa del Dottor Gratiano).² Di questi non abbiamo indicazioni numeriche o onomastiche; dobbiamo presumere che fossero pochi, dal momento che dovevano vivere in un appartamento sotto la guida del dottore, ma si tratta del nucleo di incubazione di un progetto educativo pensato su larga scala e che evidentemente prende subito forma concreta, sollecitato dall’energico pragmatismo del santo fondatore e dalla pressione crescente delle richieste che gli giungono.

¹ Si tratta di Giovanni Francesco Tittoni, per il quale viene presentata nuovamente istanza nel 1569, quando i tempi sembrano più maturi.

² Cfr.: R. Maiocchi – A. Moiraghi, L’Almo Collegio Borromeo. Federico Borromeo studente e gli inizi del Collegio, Pavia, 1916, pp. 19-23; M. Basora, Le origini del Collegio Borromeo «in casa del Dottor Gratiano», in “Quaderni Borromaici”, 2, 2015, pp. 135-143.

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